giovedì 6 marzo 2014

Siamo solo di passaggio

Non mi atteggerò a esperto di filosofia né intellettuale né profondo conoscitore delle arti e delle lettere. Per me Manlio Sgalambro era sì un filosofo ma, come credo quasi tutti (non solo in Sicilia), lo conoscevo in quanto collaboratore di Franco Battiato, autore dei suoi testi da una ventina d'anni a questa parte. Sgalambro è la penna che ha scritto alcune delle canzoni più belle del cantautore catanese. La cura, banalmente. Non fingo di essere preparato sulla sua "altra" occupazione: so solo, come tanti, forse solo per sentito dire, che era un filosofo (pur avendo studiato altro), un nichilista, un pessimista, nel campo dei Nietzsche e degli Emil Cioran, per intenderci. Punto. Tutto qui. Lo Sgalambro filosofo non l'ho mai praticato, ma so che se lui non fosse stato quel filosofo lì, dal 1995 a oggi Battiato avrebbe probabilmente scritto altro.
Ecco, oggi che Manlio Sgalambro è morto a 89 anni, è inevitabile che un siciliano, fan di Battiato, ricordi con un velo di tristezza il paroliere delle canzoni che hanno accompagnato ormai due generazioni di persone. Semplicemente sono suoi i testi dei dischi da L'ombrello e la macchina da cucire (1995, c'era anche la sua foto sulla copertina dell'album) ad Apriti sesamo (2012). Più poi collaborazioni con altri artisti, tra cui Carmen Consoli. Insomma, un Mogol più avanzato...
Si era anche lanciato nel canto, il filosofo di Lentini, conterraneo di Gorgia il sofista (oltre alla lingua italiana, abbiamo "inventato" anche parte del pensiero occidentale, ndr). Con risultati autoironici. Perché persino un nichilista riesce a non prendersi sul serio. E io peraltro ero convinto, la prima volta che sentii il suo nome, che fosse un nome d'arte, talmente suonava "strano". La sua voce ha poi recitato brani in canzoni di Battiato: in greco ha rifatto Eraclito (Di passaggio, 1996), con un pesante, divertente ma assolutamente naturale accento siciliano introduceva Invito al viaggio (1999) con i versi di Baudelaire e dei Fiori del male.
Un siciliano, un isolano in genere, a suo modo nasce già "filosofo". Lui lo era davvero. E quindi io lo ringrazio per la sua Teoria della Sicilia. Anche questa, al netto delle provocazioni (una volta ebbe a dire che "la mafia è indistruttibile, l'unica economia reale della Sicilia"), suona bene...
Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio. Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l’estinzione. L’angoscia dello stare in un’isola come modo di vivere rivela l’impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale. La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere: la storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori ma dietro il tumulto dell’apparenza si cela una quiete profonda. Vanità delle vanità è ogni storia. La presenza della catastrofe nell’anima siciliana si esprime nei suoi ideali vegetali, nel suo taedium storico, fattispecie del nirvana. La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo nel momento felice dell’arte quest’isola è vera.

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